*Di Riccardo Vassalli
“Se potessi tornare indietro, sinceramente, farei il giramondo. Perché mi piace proprio”. Se bastasse una sola frase per descrivere Giuseppe Sannino, ecco, sarebbe questa. L’indomabile voglia di scoprire nuove culture, nuovi posti e nuove avventure, abbinata a delle competenze e abilità degne di note, ha caratterizzato la carriera da allenatore di Giuseppe “Beppe” Sannino, attuale allenatore del Levadeiakos (Grecia). Gli italiani, e i ticinesi, lo conoscono per le sue avventure con Palermo, Chievo, Varese, Novara, Siena, Carpi, solo per citarne alcune.
Imprese sportive e umane, condensate tutte in un personaggio che — di certo — al calcio d’élite italiano avrebbe ancora tanto da dare. Ma “particolare” si autodefinisce, perché al giorno d’oggi è particolare non inchinarsi a logiche extra calcio. Sarà lui stesso a raccontarsi e raccontare la sua carriera in una piacevole intervista rilasciata a Laborsport.com
Dal lancio di Dybala, all’impresa in Coppa Italia con il Siena, passando dall’esperienza in Inghilterra con il Watford e, ovviamente, quella in Grecia. I rapporti con Brienza e Rigoni, fino al calcio svizzero. Questo e molto altro nel tu per tu con “Beppe” Sannino.
La Grecia e la promozione nel mirino
“Sono ritornato in questa società. Eravamo in Serie A, poi il presidente decise di cambiare. La mia più grande soddisfazione è quella di essere stato richiamato forse avendo apprezzato la scorsa esperienza. La nostra ambizione è quella di vincere il campionato e ritornare nella massima serie. Stiamo andando bene. La classifica è molto corta e ci sono tante squadre nel giro di uno/due punti.
Qui c’è una sorta di lockdown, sicuramente non è restrittivo come in Italia. Ristoranti e bar sono aperti per il take away. Però lo si vive in un modo più sereno, forse perché il paese è piccolo. Noi ogni settimana facciamo i nostri test per essere in campo in modo regolare. Siamo molto monitorati”.
L’importanza della gavetta
Sono tanti anni che lavoro. So da dove sono partito e me lo ricorderò sempre perché mi deve accompagnare. So dove sono arrivato. Ma l’aspetto importante è da dove sono partito, quello che ho dato per arrivare. Io non mi dimentico di nessuno. Ricordo tutti i miei giocatori da quando ho iniziato trent’anni fa con gli allievi. Ho dovuto vincere tanto per arrivare in Serie A. A Varese è stato il punto più alto della mia gavetta. Le esperienze sia positive che negative ti danno la possibilità di conoscerti meglio e capire dove e come migliorare. Ma devo dire che il nostro lavoro è un centrifugato del nostro tempo: una volta sei su e una volta sei giù. Ormai non c’è più meritocrazia. È un calcio che si vive di rapporti di amicizia e in un contesto di agenti importanti. Ma io ho capito che allenare non significa Serie A, Serie B o Serie C. Allenare per me significa vivere la vita e stare sul campo da calcio in qualsiasi categoria.
“C’è un errore nel mio DNA”
Io ho 64 anni, ma c’è un errore nel mio DNA. Il mio corpo non va di pari passo con il cervello. Ogni tanto non so se sono un vecchio che vive in un corpo giovane o viceversa. Finché che ho questa fame, questa voglia di fare io non posso farne a meno. Io ho smesso di giocare a 30 anni. E tanti mi hanno detto ‘è troppo presto’. Ma ho smesso per scelta mia, nonostante non abbia fatto una carriera all’altezza dei miei mezzi. Da allenatore faccio fatica a staccarmi e distaccarmi. Io faccio i miei dieci chilometri al giorno, finché ho questa voglia di stare in campo come un ragazzino lo farò sempre.
“Ora non si guarda più la qualità. Non si ha più il tempo per lavorare. Nel calcio come nella vita”
“Difficilmente questo mondo si ricorda di te”
“Nel mio curriculum manca la vittoria della coppa con l’Honved. Siamo arrivati in finale, ma non ho potuto guidarli. Dopo quell’esperienza sono stato a casa e ho imparato tante cose: 1) difficilmente questo mondo si ricorda di te; 2) puoi essere umile finché vuoi, ma tante volte non ha senso. Ho chiamato diversi presidenti per allenare in Serie C. E questo mi ha fatto capire che io voglio finire stando fuori dall’Italia. Anche perché girare il mondo mi ha sempre gratificato molto”.
L’arte del farsi da solo
“Vicino alla Svizzera no perché non ho mai parlato con nessuno, ma a me sarebbe piaciuto confrontarmi con un calcio oltre frontiera. Il miglior biglietto da visita sono i calciatori che ho allenato. Io sono una persona particolare: ho sempre fatto tutto da solo, senza agente. Ora è tutto più difficile, come nella vita. Hai visto che non esistono più i piccoli negozi? Ormai fanno parte tutti dei big shop. E così è diventato anche l’avere un agente. Non ci sono più gli agenti, ma solo grandi agenzie. Ora ci sono tantissimi interessi dietro, non si guarda più la qualità, non si guarda chi è in auge e chi meno. Questa è la vita, bisogna saperla accettare. Ho capito che il mio tempo in Italia è finito e scaduto. Anche perché ci sono tanti giovani che spingono, come quando ho iniziato io. Con una sola differenza: che ora la gavetta non si fa più”.
Dybala, Ilicic, Rigoni e ‘Ciccio Brienza
Quando Dybala arrivò a Palermo era un ragazzino. Sicuramente un grande talento: talenti si nasce. Lui arrivò da centravanti. Quando arrivò ci fece restare a bocca aperta per la facilità con cui giocava. In Italia, poi, la tattica è fondamentale e lui ha dimostrato di avere intelligenza. Sapevo che diventava quello che è, ma come lui posso spendere qualche parola anche per Ilicic. Parlare di loro è facile, ma mi piace ricordare tutti quelli che ho avuto la fortuna di allenare, soprattutto i ragazzini. È quella la cosa bella dell’allenare. Allenare i professionisti è bello, ma è più un lavoro di gestione. Con i giovani sei tu che gli dà tutte le tue conoscenze.
Ricordo con piacere ‘Ciccio’ Brienza, uno dei giocatori più completi. Un altro giocatore che mi piace ricordare è Luca Rigoni, ex capitano del Chievo. Con lui non ebbi un inizio facile, ma poi è diventato una di quelle persone con cui ci vogliamo molto bene perché i confronti duri e aspri poi portano a un rapporto duraturo e importanti. E questo è capitato sia con Ciccio che con Rigoni.
Non vorrei fare un torto agli altri, ma ho avuto giocatori come Vergassola, Terzi a Siena; a Chievo anche Paloschi che ricordo per la sua tenacia, poi in Inghilterra Faraoni, Forestieri che credo che sia il giocatore più forte che ho mai allenato dal punto di vista tecnico e nell’uno contro uno. Ora sono qui in Grecia e sono felice di condividere questa esperienza con questo gruppo di giovani”.
Inghilterra, dove le partite non sono mai finite
“Fu l’anno che andarono in Premier League e io diedi le dimissioni. Io ero lì da sei-sette mesi. Il presidente spese tanto per andare in Premier League. Però andai lì con un’altra cultura. In Inghilterra non c’è tatticismo, per loro il calcio è gioia, è vita. Non c’è quella cosa che perdi 3–0 e molli. Io lì ho perso quasi dieci punti solo negli ultimi minuti. Non son mai finite le partite. La bellezza del calcio va poi fuori dal calcio: parlo dei tifosi, toccarli, vivere con loro gioie e delusioni. Anche l’esperienza in Ungheria mi ha fatto capire tante cose: in Italia paghi per fare la scuola calcio, lì sono loro che pagano te per giocare a calcio”.
“Nessuno nasce imparato”
Se potessi tornare indietro farei il gira-mondo. È troppo bello. Nel calcio nessuno ti dà più tempo, così come nella vita, nel lavoro. Ma è solo grazie agli errori che si diventa bravi. E questo in Italia è evidente. In Europa è rimasta solo la Roma? Qualcosa vorrà dire. I giovani vengono bruciati subito e poi non diamo la possibilità ai giovani di sbagliare e diventare grandi giocatori. Ma nessuno nasce imparato.